Sono prodotti di montagna i nuovi 5 Presìdi presentati da Slow Food (4 in Friuli Venezia Giulia e 1 in Trentino) e raccontano di tradizioni alimentari preziose per la biodiversità del nostro pianeta che, nei secoli, hanno garantito la sopravvivenza delle popolazioni locali nonostante condizioni climatiche e ambientali avverse.
Friuli Venezia Giulia:

Il brovadâr, conosciuto anche come brovedâr, è un fermentato di rape, tradizionalmente preparato nell’area montana della Val d’Aupa, nella zona settentrionale del Friuli-Venezia Giulia. Per la sua preparazione si usano particolari rape dal colletto viola, di forma tondeggiante e di piccolo taglio, le cui sementi vengono conservate e riprodotte da anni dalle famiglie di Moggio Udinese, un paese circondato dalle Alpi Giulie e Carniche, legato da secoli a questo tipo di produzione. I semi che vengono tramandati di padre in figlio da generazioni e la tecnica di fermentazione sono gli elementi che rendono questo prodotto unico nel suo genere: infatti, per ottenere il brovadâr si utilizzano sia le radici sia le foglie della rapa, che vengono lavate in acqua fredda e poi leggermente sbollentate, lasciate raffreddare e adagiate a strati in tini di legno, prima di essere pressate a mano. Nel recipiente che le contiene si versa acqua fredda salata fino a coprire tutto il prodotto e vi si sovrappone un peso, per far sì che le rape rimangano coperte dal liquido durante tutto il periodo di fermentazione che dura all’incirca due mesi.

A circa 1200 metri di quota e ai piedi del monte Cogliàns, si trova il comune di Forni Avoltri. Nella frazione Collina, nasce un particolare tipo di cavolo cappuccio. La peculiarità di questo villaggio sono le temperature più basse della media, che consentono la coltivazione di questo ortaggio su terreni terrazzati esposti a sud. In passato, proprio a causa della rigidità del clima, il cavolo cappuccio di Collina era, insieme a orzo e segale, una delle poche specie coltivabili nell’area, ma col tempo e con il progressivo spopolamento delle aree montane è quasi scomparso dalla produzione locale. «A differenza delle altre tipologie di cavolo cappuccio – sottolinea Andrea Collucci, referente dei produttori del cavolo cappuccio di Collina – questo presenta, innanzitutto, una forma molto diversa: è bislungo e ha i vertici schiacciati. Ha poi molte più foglie, che sono anche più sottili e più compatte. E il sapore, al palato, risulta più piccante».

Il comune di Sauris si trova all’estremo nord del Friuli-Venezia Giulia, vicino al confine austriaco. Qui, a 1200 metri di altitudine, una particolare tipologia di fava, di cui si ha notizia già nel 1683, ha trovato le condizioni ideali per la sua crescita. La fava di Sauris è una pianta annuale, la cui semina avviene a maggio e la raccolta intorno a fine agosto. Un tempo, tostata e macinata, era considerata un’ottima farina per fare il pane o un’alternativa al caffè. «Attraverso alcuni studi – racconta Filippo Bier, referente regionale dei Presìdi Slow Food – gli agronomi dell’Ersa, l’agenzia per lo sviluppo rurale del Friuli-Venezia Giulia, sono riusciti a scoprire che questa specifica tipologia di fava era radicata nel territorio ben prima dell’arrivo sul mercato locale del fagiolo che, con l’avvio del processo di industrializzazione del mondo agricolo avvenuto nel secondo dopoguerra, ha avuto la meglio, soppiantandola in via pressoché definitiva».

Nell’area di confine tra Friuli, Carinzia e Slovenia sopravvivono pochi esemplari di pero. Tra questi c’è il pyrus nivalis, il cosiddetto “pero delle nevi”, caratterizzato da fiori e frutti molto piccoli, nonostante l’imponenza degli alberi. Questa pera, a causa della polpa particolarmente legnosa, può essere mangiata solo dopo essere stata fatta ammezzire, ovvero sottoposta a quel processo di maturazione successivo alla raccolta che ne determina un cambiamento di consistenza, colore e sapore. «La pera klozen – spiega Alfredo Domenig, produttore del Presidio – ha rappresentato per decenni una delle poche fonti di sostentamento per le popolazioni che abitavano le nostre montagne che, durante tutto il periodo invernale, restavano isolate avendo a disposizione solo patate, crauti, carne di maiale e, appunto, pere secche. Queste ultime erano, sostanzialmente, l’unico mezzo attraverso cui la popolazione locale poteva acquisire vitamine e zuccheri. Per questo, ben oltre le loro caratteristiche organolettiche, sono un alimento dal valore storico inestimabile».
Trentino:

Nei racconti popolari della tradizione, il grano saraceno di Terragnolo – conosciuto anche come formentom – vede risalire l’origine della sua coltivazione intorno al XVI secolo mentre, secondo le fonti ufficiali, bisognerebbe aspettare il 1800 per la sua diffusione in Val Terragnolo, la valle situata ai piedi del monte Maggio e del monte Pasubio in provincia di Trento, dove ha trovato l’ambiente ideale per la sua crescita. Durante la Prima Guerra Mondiale, a causa dello sfollamento verso l’Austria degli abitanti della zona, questa coltivazione ha corso il rischio di essere abbandonata per sempre, e se ciò non è accaduto è solo grazie ad alcuni agricoltori che, prima di partire, ne conservarono le sementi per redistribuirle agli altri valligiani una volta rientrati al loro paese. L’etimologia di questo alimento è piuttosto curiosa: l’aggettivo saraceno non indica un’origine precisa, ma simboleggia genericamente una provenienza lontana. Il nome grano, poi, gli è stato attribuito perché la sua granella è simile a quella dei cereali, nonostante la famiglia botanica di appartenenza sia diversa. È questo, infatti, il motivo per cui il grano saraceno viene definito uno pseudo-cereale.